Violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere e non solo. Ci sarebbero stati pestaggi ed umiliazioni anche nei penitenziari di Foggia e di Melfi. È quanto riporta La Gazzetta del Mezzogiorno che parla di testimonianze raccolte dai familiari delle vittime che ora si sarebbero trasformate anche in atti formali, al vaglio della magistratura. “Mi risulta che i detenuti che stavano in Puglia e i cui familiari hanno fatto l’esposto che abbiamo presentato, siano stati tutti e sette ascoltati dalla Procura di Foggia” dice Sandra Berardi, presidente di Yaraiha Onlus, associazione cosentina che si occupa di “tutela dei diritti umani, in particolare di quelli delle persone private della libertà personale”. È stata Yaraiha a raccogliere le testimonianze dei familiari dei detenuti foggiani. Due madri, due mogli, due sorelle e un padre hanno formalizzato ciò che avevano appreso dai loro congiunti in un esposto che Berardi ha presentato alla Procura di Foggia, il 27 marzo del 2020. Stando alla presidente, però, il primo detenuto è stato ascoltato dal magistrato solo 10 mesi dopo, a ottobre.
Nell’esposto che La Gazzetta del Mezzogiorno ha avuto modo di visionare, testimonianze che stillano terrore. Frasi come: “Massacrati di botte, trasferiti solo con ciabatte e pigiama e tenuti in isolamento per i successivi 6/7 giorni”. E ancora: “Le guardie esterne sono entrate in cella e hanno pestato i detenuti”; “Manganellate su tutto il corpo, specialmente sulle gambe e portato al carcere di Catanzaro senza avere la possibilità di prendere il vestiario o il minimo indispensabile”. Vicende che sarebbero successive alla rivolta del 9 marzo 2020 quando, causa pandemia, i detenuti del carcere di Foggia misero la struttura a ferro e fuoco. In 72 riuscirono persino ad evadere, ma vennero tutti riarrestati.
Il provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria di Puglia e Basilicata, Giuseppe Martone, era sul posto – riporta Gazzetta – e oggi sintetizza così: “Il giorno della rivolta a Foggia io ero presente, ho parlamentato con tutti i detenuti, alcuni erano riversi verso l’esterno del carcere. Era stata distrutta la matricola, era in panne la cucina con cui confezioniamo i pasti con i detenuti lavoranti. Se la cucina era stata devastata potevano avere lame, coltelli. Hanno rotto tavolini, dunque potevano avere bastoni”. Ma il provveditore esclude che a Foggia vi sia stata una “perquisizione straordinaria” come quella avvenuta a Santa Maria Capua Vetere: non l’abbiamo organizzata nell’immediato – spiega – anche perché i detenuti erano praticamente liberi, eccezion fatta per i 72 evasi, che poi sono stati riarrestati. “All’interno non c’erano le condizioni – dice – ci volevano mille uomini per affrontare 500 detenuti liberi con le barriere divelte”. Di fatto, l’ordine viene ristabilito e si decide di diminuire la popolazione carceraria presente. “Bisognava far decrescere il numero dei detenuti – spiega il provveditore – anche per consentire la messa in sicurezza e il ripristino di tutto per la gestione. Per cui è stato dato luogo a un trasferimento di un centinaio di detenuti. Così come – aggiunge – sono stati trasferiti coloro che, evasi, venivano riarrestati”. Il 12 marzo 2020 scattano i trasferimenti dei detenuti di Foggia. È il sito Poliziapenitenziaria.it, organo di stampa ufficiale del sindacato degli agenti Sappe a dare la notizia: “All’uscita dall’istituto (di Foggia; ndr) a bordo di alcuni dei mezzi i detenuti da trasferire altrove, i colleghi della Polizia Penitenziaria sono stati salutati dai colleghi delle altre Forze di Polizia a sirene spiegate e con il saluto militare”.
Ma nell’esposto si riferisce di agenti di Polizia penitenziaria che sarebbero piombati nelle celle armati di manganelli. Cogliendo i detenuti in pigiama, mentre dormivano. Botte. Botte. A ancora botte – riporta Gazzetta -. Presi di peso e gettati in una camionetta. Trasferiti a centinaia di chilometri di distanza, all’arrivo nel nuovo carcere ancora botte. Botte e isolamento. Impossibilitati ad avvisare avvocato e familiari per giorni, senza soldi, con addosso solo quello stesso pigiama. Tra le presunte vittime anche una persona invalida al 100% la cui moglie avrebbe denunciato il “massacro di Foggia”.
Il provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria di Puglia e Basilicata – scrive Gazzetta – afferma di non essere a conoscenza delle circostanze qui evidenziate e relative a Melfi e Foggia (“A me gli esposti non sono mai arrivati”). Preparato, fermo ma garbato, una lunga esperienza alle spalle, Giuseppe Martone sarebbe molto stimato stando al focus del giornale dei Ladisa. “Non ero presente durante i trasferimenti, ma lungi da noi pensare di usare la forza”. Condanna i fatti di Santa Maria Capua Vetere, per come stanno emergendo. Condanna “ogni forma di violenza”. Conferma la “piena fiducia nella Magistratura”. Infine assicura: “Lavoro da 40 anni e non mi sono mai permesso di ordinare l’uso della forza salvo casi eccezionali, per difendere le persone o per evitare evasioni”.